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L' "END STATE" di una Guerra di Pace
di Arrigo Arrighi domenica 17 ottobre 2010


Sarà per il privilegio concessomi di vivere, osservare e analizzare le "guerre di pace" che - in maniera assai semplicistica - affermo dire che l'END STATE di tali operazioni è quello di aprire nuovi potenziali mercati che possano contribuire a sostenere il livello di benessere e l'opulenza del mondo occidentale.
Piaccia o meno, e pur con tutte le contraddizioni che ci portiamo dietro, non v’è dubbio che siamo convinti che il nostro modello di vita, di "democrazia", di tolleranza sia quello giusto, vincente. I confini sono un ricordo del passato e il globalismo inarrestabile impera.

Ciononostante, e anche qui piaccia o meno, non c’è globalismo etico e il valore della vita nel mondo non è valore assoluto. La morte di un bimbo da noi non equivale alla morte per errore di un bimbo gettato di proposito dai genitori sotto le ruote di un camion dell’ONU, per renderlo storpio e guadagnare indennizzi; 100 minatori ucraini non equivalgono a 33 cileni … se non c’è la CNN a riprendere il fatto.
Dell’Africa si parla poco o nulla perché aprire un mercato nella preistoria non è come aprirlo nel medioevo.

Dunque bando alle ciance da intervento umanitario, alle "bolle" di sicurezza create da fantomatici bombardieri armati o meno; oggi il mondo lo cambia il commercio, il lavoro a basso costo, le parabole, i telefonini, internet e anche le donne scoperte che si fanno la gita in fuoristrada nel deserto dove c’è chi pratica ancora la transumanza.
In assenza di rivoluzioni e guerre del passato i militari, nelle “mature” democrazie occidentali che decidono di impiegarli, sono coloro che aprono la strada a tutto ciò. Negli USA i militari sono in cima alla scala sociale, molto più di poliziotti e pompieri perché si avverte, nonostante una diffusissima sottocultura, che sicurezza, benessere, prosperità - finanche la libertà - dipendono in larga misura da ciò che avviene oltremare.

Se si vuole ridurre le probabilità che un fanatico si faccia esplodere in metrò bisogna investire anche laddove costui sviluppa il suo modo di pensare ed agire. In altre parole i militari sono coloro che sostengono, quello che nei Paesi forse più avanzati del nostro è definito - senza mezzi termini e scimmiottamenti - INTERESSE NAZIONALE. Sfido chiunque a trovare un documento governativo (di destra o di sinistra che sia) che definisca gli interessi nazionali italiani. Un rapido giro in internet ne evidenzia alcuni di molti altri Paesi, anche insospettabili.

Non desidero tuttavia emanare solo negatività. Riconosco e apprezzo che in Italia sia cresciuta alla velocità della luce una certa coscienza civile che faccia finalmente costruttivamente dialogare e persino condividere su "grandi temi" di politica estera esponenti politici di matrice opposta. Riconosco ed apprezzo che non si parli più dei militari come si faceva quando scelsi questa professione. Il Colonnello Buttiglione o il maresciallo che ruba il provolone sono scomparsi dall’orizzonte della TV; carabinieri e poliziotti, tradizionalmente deputati agli affari
interni, avvertono la sfida e cercano in tutti i modi di saltar sul carro delle missioni estere; una sciocca, retoricissima ricerca di voti addirittura ripristina la MINI NAJA volontaria ed un mix privo di significato mette i militari a pulir le strade di Napoli o a controllare quelle di Milano.
Insomma c’è fermento. Confuso, ma c’è!

Quanto alle scritte alla “viva Nassiryah”, oltre a essere espressione di sparute frange, sono di fatto un autogol che costringe al distacco anche chi potrebbe essere vicino a tali frange, forse un po’ come avvenne ai tempi delle BR. Mi provocano immediato sdegno, ma poi penso che facciano bene alla crescita della coscienza di cui sopra.
Ma non basta, ritengo che siamo ancora lontani, molto lontani dall’obiettivo.
Infine, suggerisco che l’unità di misura per un osservazione equa dei risultati che il lavoro e il sacrificio dei militari produce sia il lustro, se non la decade. Nessuno ne parla perché fa poca audience (come tutto quello che è positivo). Si dia un occhiata a quello che e' successo (e per certi versi sta ancora succedendo) in Mozambico, in Albania, in Bosnia, in Kosovo, in Iraq. Nel 2004 tentai di spiegare ai di bambini delle elementari alcuni di questi concetti embrionali allorquando molti pensavano ai militari morti o a scappare dalla guerra di Bush, come fecero gli spagnoli. Ci si faccia un idea sui mercati di cui sopra e ci si chieda se è valso l'investimento, se si tratta oggi ancora di "mercati chiusi" come lo erano al principio!

Chiaro che tutte le ciambelle non escono col buco (Somalia) e che i profondi cambiamenti demografici e migratori in corso complicano le cose; quasi ottimisticamente aggiungo che potrebbero essere letti come i segnali della fine dell'Impero.
Non so davvero se quanto scrivo e penso sia anche consolidato pensiero (o dissenso) dei rampanti politicanti di tutte le estrazioni che ahimè popolano lo spettro italico .. figuriamoci se sia dominio della "stampa" o del videocratico popolo più che mai assuefatto a guardare e a non pensare, a parlar di veline, a cibar il proprio desiderio d'informazione solo con videogiornali, ad abiurare l'analisi, a leggere poco o nulla, a parlar di escort, di case a Montecarlo o delle incredibili gesta dei protagonisti del Grande Fratello!
Comincio a far fatica a pensare che sia dominio persino dei cosiddetti "uomini di cultura".